No results found
Molto e troppo spesso con il termine Open Source si designano software non proprietari, il cui sviluppo è condiviso e aperto a una comunità di esperti e non, ma lo si fa in un’accezione se non negativa, quantomeno riduttiva; infatti si considera il prodotto “open” come qualcosa di seconda scelta, cui si ricorre perché non si ha il denaro sufficiente a pagarsi un software proprietario o ce la si vuole cavare con poco. In realtà, almeno nel software, quella di andare sull’open source non sempre è una scelta dettata da tali motivi ma può nascere da un’esigenza strategica: per esempio non rimanere vincolati e bloccati se la software house che ha creato un prodotto chiude “i battenti”, sospende il supporto o rompe il contratto, ovvero se un sistema operativo diventa obsoleto.
Insomma, si può anche utilizzare l’open source nell’ottica di una strategia di business e non solo a livello dilettantistico.
Quello che ci si rivolge all’open perché mancano le risorse è il primo mito da sfatare, perché ci sono molte aziende multinazionali che non hanno problemi di soldi, ma che per propensione usano tantissimo software open source nei loro sistemi principali dei software open source. Tre esempi sono Facebook Open Source, Google Open Source e Spotify’s Free Software Projects; nella prima, il database che sostiene l’intera infrastruttura è open. Il linguaggio con cui è creata l’infrastruttura è open source e l’azienda crea miliardi di software open source. Lo stesso per Google Open Source, che ha un portale da cui rilascia software open e tutta la relativa infrastruttura è basata su macchine con software open source.
Spotify è una lista di progetti dove tutto l’encoding che viene fatto è open source.
Anche Microsoft ha sposato la filosofia open source adottando un kernel Linux per Windows 10 e praticamente adesso ha rilasciato in open source DotNet, Visual Studio Code, PowerShell, TypeScript.
L’altro mito da sfatare è che il software open source è gratis e quindi vale poco: questa cosa non torna perché ci sono molte aziende (immagine seguente) famose che fanno parte di una fondazione chiamata Linux Foundation e pagano per far parte di questo gruppo che spinge il software open source nel mondo.
Altro esempio è RedHat (nota per la sua distribuzione Linux) che è stata comprata da IBM per 24 miliardi di dollari! In ultimo ricordiamo la piattaforma open source di repository che molti utilizzano per sviluppare e pubblicare codice e documentazione: si tratta di GitHub, uno dei simboly dell’open, comprata per 7 miliardi di dollari da Microsoft.
Questo dimostra come dietro l’open source ci siano valore e innovazione.
Il terzo mito da sfatare è che l’open source non sia adatto per il business, che sia e complicato e complesso, fatto per gli smanettoni e per quello che ha voglia di perdere soldi; è una bugia…
Per fare da ponte tra il mondo dell’open e quello del business serve indubbiamente qualcosa ed un esempio è Nethesis, azienda nata con tale scopo.
L’azienda ha sviluppato un prodotto open source chiamato nethserver (un sistema operativo server) partendo praticamente da zero; l’obiettivo di partenza era creare questo prodotto che rispettasse queste tre condizioni:
La domanda sorge spontanea: se un software è “aperto” da cosa guadagna chi lo ha creato e distribuito? Ebbene, bisogna evitare di soffermarsi sul fatto che il suo kernel sia svelato e hackerabile dagli sviluppatori della community e ricordare che l’utilizzo può essere concesso dietro vari tipi di licenza.
C’è inoltre una considerazione da fare: è vero che il prodotto open source è gratis, però da esso si può fare business e ciò si comprende con l’esempio dell’acqua, la quale è accessibile a tutti ma può essere commercializzata in bottiglia. L’acqua di una fontana in piazza si può bere liberamente, ma se vogliamo consumarla altrove ci serve un contenitore, che la rende fruibile in altri contesti e in base alle esigenze di ciascuno. C’è quindi chi vuole una borraccia per portarla in bicicletta, una bottiglia per averla in macchina o in treno ecc.
Ebbene, l’acqua è il software open source mentre la bottiglia è il servizio, ossia la consulenza di chi, come nethesis, fa il lavoro di contorno. Infatti un software open source di per sé è qualcosa che deve essere personalizzato ma soprattutto mantenuto, dato che il supporto ufficiale può cessare, che gli aggiornamenti possono fermarsi, come pure le patch e che ci si può trovare ad esempio in una situazione del tipo quella che non sono più disponibili plug-in o aggiornamenti per applicativi più o meno proprietari.
Nethesis rende fruibile e supporta il sistema operativo per chi ne vuol fare un uso aziendale, perciò, come mostra l’immagine seguente, il sistema operativo è di libero utilizzo per chi vuole e può fare da sé, ma chi desidera farne un utilizzo commerciale e non ha System Integrator o esperti in programmazione all’interno dell’azienda può affidarsi a nethesis, che farà il lavoro che serve a rendere trasparente all’utilizzatore tutta la parte di gestione aggiornamenti, supporto, monitoraggio dell’attività e fornitura e gestione di applicativi.
Quindi tornando al parallelo con acqua e bottiglia, quest’ultima è qualcosa che permette di avere già pronto e utilizzabile in un certo contesto un prodotto generico, che nella sua parte essenziale è gratuito ma che se si vuole adattare a un contesto aziendale bisogna “metterlo in bottiglia”.
Come mostra il prospetto nell’immagine seguente, quindi, nethesis non chiede denaro per licenze d’uso ma per manutenzione e servizi legati all’utilizzo di nethserver, fornisce documentazione e formazione per il personale che deve utilizzare il sistema operativo, ma dispone anche di una rete di partner che possono distribuire il prodotto.
Attualmente conta su 400 partner in Italia e 20.000 installazioni attive nella versione enterprise. Tra i servizi di supporto al sistema operativo abbiamo nethsecurity che riguarda la sicurezza informatica, nethspot dedicato alla realizzazione di hotspot e marketing digitale, nethservice che è sostanzialmente una suite per il lavoro in team.
Ricordiamo che tra i benefici dell’open source ci sono l’elevato livello qualitativo del codice, che viene testato da una community e che permette sia di condividere eventuali bug e soluzioni trovate, sia si accelerare il processo di perfezionamento del codice; la trasparenza è una garanzia per l’utilizzatore, che sa che nulla può essere tenuto nascosto e che quindi si fida.
C’è anche il fatto che i processi di sviluppo e testing sono certificati e trasparenti e inoltre la soluzione open permette di avere un prezzo interessante perché contando sulla community si possono avere tante funzionalità a disposizione e non ci sono costi di licenza da sostenere.
Il sistema operativo in versione enterprise rappresenta una soluzione, più che un prodotto acquistato a scatola chiusa, perché può essere customizzato, brandizzato e utilizzato come partenza per progetti che possono essere portati avanti.
Va detto che fare business con l’open source non è semplicemente prendere o sviluppare un software open e fornire i servizi enterprise suddetti, ma significa proprio cambiare paradigma, quindi chi vuol diventare un imprenditore dell’open source deve fondare la propria realtà su cinque punti fondamentali, di seguito chiamati pilastri e sintetizzati nell’immagine seguente.
Il primo elemento fondante è essere e ragionare open; questo significa apertura, quindi essere chiusi al mondo esterno e andare avanti con un’idea fissa non paga. Lo dimostra una ricerca condotta da DBM secondo la quale l’innovazione nell’azienda viene per il 30% dagli addetti e per il 70% dall’esterno, ossia clienti, fornitori e partner.
Quindi un modo di fare azienda chiuso è controproducente, perché così non si è innovativi senza essere aperti.
Essere aperto significa capace di scoltare, quindi la community open source, il cliente, i partner; e significa anche recepire ciò che si ascolta, anche se è differente da quel che si pensa. Essere chiuso alle alle idee che vengono da fuori implica che tutto quello che ascoltiamo lo recepiamo come critiche, mentre essere aperto alle critiche significa che tutto quello che si ascolta sono consigli.
Un altro passaggio determinante nella filosofia open è sviluppare insieme, quindi creare una prima parte del software che costituisce la pietra miliare e poi coinvolgere nello sviluppo di quel che manca sia la community, sia i partner. Questo perché la storia insegna che tutte le grandi scoperte sono tutte frutto di una collaborazione, ossia di un’idea alla quale poi ognun collaboratore aggiunge un pezzo.
La comunità è fondamentale nella filosofia open source e quindi bisogna sia composta da più gente possibile, giacché più idee vengono messe sul tavolo, più il prodotto si può migliorare. La comunità ci aiuta a guardarci dall’esterno, come fossimo allo specchio.
In questo contesto rientra anche il far incontrare, oltre che i membri della community, anche i partner, perché questo consente un confronto costruttivo che non solo fornisce nuove idee, ad esempio sul modo di lavorare e di diffondere i propri prodotti, ma soprattutto fa crescere i propri partner. Questa crescita poi si ripercuote nell’avere a disposizione una rete di distribuzione del proprio software enterprise più professionale, qualificata ed efficiente nel supportare i clienti, che migliora sia il profitto di chi sviluppa il software open (come vedete, gratis non significa senza guadagno…) sia l’immagine che il pubblico si fa.
Il terzo pilastro sono le persone, che devono venire prima di tutto: del prodotto, dell’azienda ecc. Questo significa sviluppare un gruppo di lavoro e motivarlo, affinché da esso escano idee; ed anche riunire questo gruppo frequentemente e parlare, come in una tavola rotonda, di tutto, quindi di tecnica, di business ma anche degli aspetti commerciali e di come stabilire un contatto con i clienti acquisiti e potenziali.
Nel discorso rientra il pensare out the box ossia sovvertire l’ordine, essere capaci in ogni momento di vedere le cose in maniera diversa e di ridisegnare, se occorre, la gerarchi aziendale, riconoscendo l’importanza di porre tutti sullo stesso piano quando si tratta di idee e strategie, perché le decisioni importanti si prendono con il supporto di tutti.
Avere una Mission significa avere uno scopo che va oltre, cioè puntare a qualcosa che va al di là dell’azienda vista come mezzo di profitto. Avere una mission significa mettersi sempre in discussione è capire dove si vuole andare e perché si sta facendo impresa.
Facendo un parallelo, si potrebbe confrontare due persone che stanno spaccando pietre, solo che una lo fa come lavoro a sé stante mentre l’altra immagina che con quelle ci si costruirà una cattedrale. Ebbene, avere un obiettivo e dare una motivazione al proprio lavoro è la mission ed è ciò che permette di puntare in alto e di raggiungere gli obiettivi che ci si dà e che possono essere via-via più ambiziosi.
Questo modo di ragionare è oggi indispensabile, perché i vostri clienti non comprano quello che fate, la soluzione o i prodotti che proponete, quanto, piuttosto, comprano l’idea che vi spinge a farli.