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Esiste una metodologia o disciplina, se preferiamo, che negli ultimi dieci anni ha completamente cambiato il modo di fare marketing, prima in America e poi anche nel resto del mondo. Stiamo parlando di un tema legato al mondo del marketing in particolare del marketing digitale.
Molti dicono che quando è nato il growth hacking il marketinh è morto, ma in realtà è quello che il marketing avrebbe dovuto essere fin dall'inizio .
In questo tutorial verrà spiegato il perché, in cosa consiste il growth hacking e come si applica al concetto di marketing digitale.
Entriamo dun que nel dettaglio, affermando che il growth hacking è sostanzialmente un approccio mentale, un mindset, ossia una mentalità con la quale si affronta, nello specifico, il marketing: un modo nuovo di guardare dei problemi vecchi.
Growt hacking significa sostanzialmente “crescita fuori dagli schemi”. Trasportato nel mercato, si potrebbe dire che se una piccola realtà deve competere con una grande dotata di molti più fondi, la competizione non può essere sul piano del budget, ma va spostata su un altro campo.
Altro aspetto da non trascurare è porsi le giuste domande, ossia non dare alcunché per scontato ma mettere in discussione anche la propria conoscenza, cosa che permetterà di trovare aspetti finora trascurati.
Ultimo particolare è utilizzare le risorse a disposizione e fare leva su quelle.
Il growth hacking può essere schematizzato dall’immagine seguente, la quale lo considera come il punto d’incontro, ossia l’intersezione di tre aree (di discipline) che sono:
Questi possono essere considerati un po' come i tre pilastri del growth hacking.
Cosa significa quindi questo schema? Innanzitutto che il marketing e il prodotto sono due cose che viaggiano di pari passo; sebbene questa possa sembrare un’ovvietà, non lo è per niente, in quanto molto spesso gli imprenditori grandi e piccoli, esperti e meno esperti, tendono a vedere il prodotto e il marketing come due momenti distinti, quasi come se fossero due fasi di vita dell’azienda. Quindi si progetta il prodotto, si arriva all’industrializzazione e quando è pronto per essere immesso sul mercato si cerca l’aiuto del marketing per affermarlo.
Nulla di più sbagliato, perché il prodotto va sviluppato pensando già a come pubblicizzarlo e aggiustandolo sulla base del target di mercato, in quanto, ad esempio, potrebbe accadere che un prodotto una volta pronto per l’immissione in commercio potrebbe essere ormai fuori mercato. Quindi il marketing può servire a rimodulare il prodotto durante lo sviluppo.
Growt hacking significa anche avere un approccio data driven, cioè basato sui dati; inoltre significa sperimentazione, ossia testare ogni singolo sul campo, raccogliere dati e in base ai dati prendere delle informazioni.
Tra i precursori del growth hacking si può citare Ryan Holiday, un famoso marketer americano che scrisse per primo un libro sul growth hacking, il quale descrisse il marketing non come “qualcosa da fare a un certo punto, ma come qualcosa da costruire nel prodotto stesso”.
È questo il grosso cambio di paradigma, perché finisce l'epoca nella quale ci si preoccupa di come vendere un prodotto una volta terminato lo sviluppo e si va a lavorare su tutte e due le cose contemporaneamente.
Ma il growth marketing si può far risalire a Sean Ellis, il 26 luglio del 2010, quando egli scrisse un post sul suo blog che si chiama “Find a growth hacker for your start-up”.
Ellis era un esperto di marketing della Silicon Valley che veniva chiamato dalle aziende quando esse avevano dei problemi di crescita, andava in azienda con il suo Team, lavorava per un certo numero di mesi facendo quello che era necessario e ne usciva dopo aver risolto il problema.
Accadeva, però, una cosa particolare: quando finiva il lavoro di Ellis, la dirigenza dell’azienda metteva a proseguire il suo lavoro un marketer e questo inevitabilmente falliva. Il perché era da cercare nel fatto che l’approccio di Ellis non era quello del semplice marketing, in quanto Ellis lavorava con un approccio multidisciplinare, cioè si portava dietro il marketer, il programmatore, il designer, l’esperto di psicologia e quello di analisi dati e così via, quindi affrontava il problema integrando tutti gli aspetti che coinvolgono il rilancio di un’azienda.
La grande rivoluzione portata da Ellis era quindi spostare il focus dall’esperto di marketing alla crescita dell’azienda, cercando di comprendere prima di tutto cosa potesse ostacolarla o rendere un prodotto non competitivo.
Uno dei casi più famosi di growth hacking, probabilmente il primo che è stato raccontato pubblicamente e dietro al quale tra l'altro c’è Ellis, è quello di Dropbox.
Ovviamente non è sempre stato il colosso che conosciamo oggi, quello che fa dei numeri da capogiro: era una tipica startup americana Un po' Come fare tutte le aziende, all'inizio si faceva pubblicità sui vari canali e spendeva, per acquisire un cliente 300$ su Google AdWords. Quindi per singolo cliente le costava 300 dollari a fronte di un servizio che offriva a un prezzo di circa 69$ l’anno. La cosa non stava quindi in piedi finanziariamente.
Poi Dropbox fece il salto di qualità, che ne fece impennare la curva di crescita fino a farlo diventare quel colosso che conosciamo oggi, ossia l'azienda di successo che conosciamo.
Il momento in cui ciò accade è quando viene introdotto il programma di referral; il programma di referral è la possibilità offerta dal servizio, di invitare un amico, quindi chi invita un amico e questo accetta, l’utente che lo ha invitato guadagna 500 Mbyte di spazio sul portale di Dropbox e anche l’amico guadagna 500 megabyte di spazio gratis. Il tutto a un costo praticamente nullo, se non quello dello spazio di storage offerto sui suoi server, sicuramente minore dei 300 dollari a utente acquisito tramite Google!
Dropbox è stata una delle prime aziende a introdurre questa operazione e a farla bene, al punto che le consentì di passare da 100mila utenti a 4 milioni di utenti in appena un anno.
Questo è un caso nel quale il marketing ha fatto ben poco, perché è stata una funzionalità del prodotto, è stato l’intervento tecnico sul prodotto che ha dato il via alla crescita esponenziale del prodotto stesso; in un certo senso è stato il prodotto a fare marketing per sé stesso.
Il caso Dropbox riporta a quanto spiegato qualche paragrafo indietro: concentrarsi sulle poche risorse disponibili e valorizzarle.
Dropbox aveva una piccola base di utenti non molto attivi, però chi ha fatto la campagna di crescita aveva capito cosa era di valore per loro, ossia lo spazio dove pubblicare i propri documenti, perciò ha lavorato sullo spazio.
Il caso Dropbox dimostra anche come il marketing e il prodotto viaggiano di pari passo.
Un caso molto simile e interessante (altro esempio storico di growth hacking) è Airbnb: anche i suoi fondatori non avevano soldi e soffrivano problemi di crescita e quello che ha fatto veramente la differenza è stato quando hanno integrato il loro portale, la loro piattaforma, con Craigslist (il più grosso sito di annunci americano, tra i più visitati al mondo).
La soluzione fu che ogni volta che una persona metteva un annuncio su Airbnb, questo annuncio veniva anche copiato pari-pari su Craiglist, però alla fine c'era un piccolo link che diceva “se vuoi prenotare questa camera clicca qui” che reindirizzava su Airbnb. Quindi, letteralmente spostavano l'audience da una piattaforma all'altra, cioè andavano a prendersi gli utenti a casa del più grosso competitore, ossia Craiglist.
Il caso Airbnb offre lo spunto per tre considerazioni: la prima è che per un'azienda qualsiasi, costruirsi un’audience da zero è difficile e diventa difficilissimo per le startup.
La seconda è che se possibile bisogna utilizzare l’audience di un competitor, vedendo quest’ultimo come una risorsa, invece che come un avversario; la base del ragionamento è che il pubblico potenziale si raduna comunque da qualche parte e, nel caso del web, su social e piattaforme varie, che bisogna conoscere se si vuole sfruttarne le potenzialità.
La terza è che, come per Dropbox, il marketing e il prodotto sono andati di pari passo, perché in Airbnb, a determinare la crescita non è stato il marketing tradizionale ma un intervento nel prodotto, nel senso che ne è stata una modifica di una funzionalità.
Una storia molto simile è quella di Hotmail, un portale gratuito di posta elettronica nato molti anni fa; la sua crescita vertiginosa è iniziata quando è stata inserita una funzionalità consistente nel fatto che ad ogni e-mail che veniva inviata da Hotmail veniva aggiunta in automatico una firma che diceva: “P.S. I Love You, get a free Hotmail”.
Questa forma di propaganda forzata, che non poteva essere cancellata dal mittente, veniva aggiunta in automatico e raggiungeva tutti i destinatari e quelli eventualmente in copia conoscenza, quindi inviando, ad esempio, 10 e-mail a dei contatti, praticamente era come presentare ad essi indirettamente di Hotmail.
Questo fece crescere in maniera esponenziale l’audience.
Anche in questo caso, ancora una volta marketing e prodotto viaggiano di pari passo e la crescita dei Hotmail è avvenuta per una funzione (in questo caso era l'utente che diventava ambassador del prodotto) e non il marketing.
Il caso di Uber è interessante per precisare che non bisogna assegnare al termine hacking il significato di “truccare” o agire con pratiche poco lecite, ma piuttosto modificare e ottimizzare la crescita.
Uber qualche anno fa creò un reparto all'interno della sua azienda, dove c'erano delle persone che avevano uno smartphone con credito illimitato e il cui lavoro consisteva nel prenotare le auto del competitor Lyft per tenerle impegnate; in pratica il principale compito di Huber consisteva nel prenotare le auto di Lyft e e poi quando la macchina stava per arrivare, annullare la richiesta.
Era una pratica decisamente scorretta, attuata con l'obiettivo di tenere occupata una macchia di Lyft in modo che a un certo punto chi necessitava di un’auto pubblica, non trovando più auto di lyft si rivolgeva a Uber.
Questo, nulla ha a che vedere con il growth hacking ed è inoltre una pratica scorretta per la quale Uber è stata multata pesantemente e quando è stata scoperta questa cosa, il reparto è stato chiuso.
Una delle cause principali del fallimento di un’azienda non è il prodotto ma la distribuzione; per questo è fondamentale rivedere la propria visione di prodotto e integrarla in una strategia di crescita che tenga conto del mercato.
Tornando al growth hacking, va detto che l’approccio inventato da Ellis è funzionale alla crescita e non solo al prodotto, per un motivo molto semplice: viviamo in un contesto in rapida e continua evoluzione, dove il digitale cambia le regole del gioco, nel senso che con l’avvento del digitale oggi non facciamo più business come prima. Ogni tre mesi... ogni 6 mesi il digitale stravolge completamente i trend e le “regole del gioco”.
Il growth hacking è un processo di sperimentazione rapida sui canali di marketing del prodotto, per trovare il modo più efficiente di far crescere un business. Nel concreto, è un ciclo formato da quattro fasi (immagine seguente):
Più esattamente, le fasi si possono spiegare così: la prima è l’ideazione degli esperimenti, che avviene in un momento di brainstorming creativo nel quale ideare le attività da testare relativamente agli aspetti del marketing e del prodotto.
La prioritizzazione riguarda gli esperimenti da fare, ossia bisogna decidere quali test eseguire per primi e considerare rilevanti.
L’esecuzione degli esperimenti è quella in cui si compiono i test ideati nelle fasi precedenti.
Infine l’analisi dei risultati è quella dove si tirano le somme e se è il caso si riparte con l’ideazione di nuovi test, proprio sulla base delle considerazioni cui i dati hanno portato.
Il concetto che vogliamo far passare è che tutte queste metodologie elencate hanno le stesse radici, hanno gli stessi concetti di base che ormai diciamo ci portiamo avanti da vent'anni e che sono state contestualizzate in mondi diversi. Ma sono cose che hanno un'origine ormai nota e delle basi molto solide che se torniamo indietro, nascono negli anni ‘70 in Toyota dal Lean Manufacturing.
Qualcuno ha poi pensato di applicare il processo nel business e gli ha dato il nome, poi è arrivato qualcun'altro che ha pensato che se funziona nel business può essere trasportata nel marketing e così è nato il growth hacking, che può essere visto come processo, ossia lo schema proposto nell’immagine precedente ripetuto più volte nel tempo fino a ottenere dei dati soddisfacenti.
Quindi, come mostra l’immagine seguente, il growth hacking è l’esecuzione continua di esperimenti alla ricerca di quello che fornisce risultati vincenti.
Nell’immagine vedete il cerchietto rosso dove un esperimento non va a buon fine e il cerchietto con segno di spunta verde quando, dopo numerosi tentativi, si trova la soluzione.
Per definirsi tale, un esperimento di growth hacking deve avere questi requisiti, ovvero dev’essere:
Si tratta delle stesse basi sulle quali si fonda la sperimentazione scientifica.
Il growth hacking è un’attività crossfunzionale, che coinvolge tutti i reparti di una realtà aziendale e che va a intervenire in quelli dove sia necessario operare dei cambiamenti (immagine seguente); si tratta sostanzialmente del discorso fatto sul team interdisciplinare di Ellis.
In termini di competenze, l’immagine seguente propone uno schema che viene definito un po' il profilo a T, che si contrappone a quello a I tipico degli specialisti; è quello tipico degli dei growth hacker, giacché questa figura volutamente non è uno specialista, perché invece di sapere tutto su una sola disciplina cerca di conoscere un po’ di tutte le discipline che coinvolgono la crescita di un’azienda, ossia marketing, tecniche di programmazione, tecniche di produzione e tanto altro.
Quindi la stessa persona sa scrivere codice, sa fare una campagna Facebook, sa scrivere un testo persuasivo, è capace di fare un po' di A/B testing, si intende di statistiche e così via.
Se vogliamo descrivere come lavora il growth hacker, diciamo che sicuramente è una persona orientata ai dati, perché il tutto è basato sull'analisi dei dati, quindi vede cosa ha funzionato e cosa no ed eventualmente corregge il tiro. È un portavoce della crescita, intendendo che la crescita è il focus numero uno e non può essere un progetto collaterale. Infine il growth hacker gestisce il processo, non le persone.
Questa rivoluzione parte dal mondo delle startup ma ovviamente ha raggiunto aziende di ogni tipo: per esempio dei colossi che oggi hanno sviluppato al proprio interno il reparto di growth kacking, tra i quali spiccano Facebook, LinkedIn, Twitter, SAP, Intuit. Inoltre nell’estate del 2017 Coca Cola ha sostituito il direttore marketing (il classico CMO) growth hacker e da quel momento l’esempio è stato seguito da grandi realtà come ad esempio Heineken, ING, Philips, Transavia ed è diventato la consacrazione del growth hacking come pratica di business.
Nel concludere, va ricordato che il growth hacking è un’attività che non svolge una sola persona ma che si fa in squadra, vista l’ampiezza delle competenze richieste; il relativo team comprende almeno un programmatore (almeno se si tratta di prodotti digitali e informatici), un marketer (perché c'è sempre da mettere mano sui canali di marketing), un designer (perché deve lavorare sulla parte di design) e poi c'è questa figura che è il growth hacker, molto spesso chiamato growth master, il quale semplicemente è la persona che gestisce il processo, quindi è quello che fa l'analisi dei dati, che tiene sotto controllo gli esperimenti, che vede se occorre intervenire, eccetera. Quindi questa figura non è nient'altro che un facilitatore.
Siccome il processo è basato sulla sperimentazione, il fallimento va messo in conto, visto che mediamente il 90% degli esperimenti non andrà a buon fine. Ma un esperimento fallito è un insegnamento, perché permette di imparare. Più si impara, più si migliora e più si migliora, maggiore è la possibilità di realizzare esperimenti di successo.
Ma la sperimentazione e i tentativi falliti sono inevitabili nel percorso della crescita; l’abilità sta nel ridurre la percentuale di errore e nel compiere esperimenti sempre più mirati e quindi meno dispendiosi in termini di tempo e risorse.